Lancia Fulvia Competizione Ghia

L’opinione di Enrico Fumia per il fulviaclub.it

Ricordavo quella show-car gialla di Ghia sulle pagine di “Style Auto”, rivista bimestrale italiana di cui conser­vo gelosamente la collezione completa: 37 numeri dal ’63 al ’78.

Quel che invece non ricordavo è che il relativo articolo sul N°21-1969 è firmato dall’autore del suo design: Tom Tjaarda, che ho avuto il piacere di conoscere e frequentare. Persona elegante, preparata e trasparente. Un vero Designer e - mi si permetta di sottolineare - anomalo rispetto agli altri designer americani tutta fuffa & show conosciuti.

Rileggendo l’articolo non ci sono enfasi sulle peculiarità stilistiche di quella sua auto, disegnata appena ritornato alla Ghia (dove iniziò prima di passare alla Pininfarina) per “rimpiazzare” Giugiaro (nell’intervallo post-Bertone prima di fondare la SIRP poi Italdesign). Intendo nessuna enfasi autoreferenziale, ma solo un’asettica descrizione (che mi ha rimandato a quando scrissi la brochure della “mia” Audi Quartz Pininfarina per il Salone di Ginevra ’81, attento a non autoincensarmi).

Oggi, a gentile richiesta, provo ad immedesimarmi in Tom per analizzare/spiegare lo stile di quel prototipo unico. In sostanza provo a commentarlo a distanza di molti anni. Il che non è come fosse stato allora.

Nel ’69, infatti, si era nel pieno della transizione da morbide raccordate superfici tonde tipiche degli anni ’50-‘60 (praticate anche da Tjaarda in Pininfarina) a quelle tese e spigolose che caratterizzeranno gli anni ’70-’80. L’hanno fatto tutti o quasi: Giugiaro sì; Gandini no, perché da sempre votato (anche a suo dire) a volumi squadrati. L’adattarsi o meno a quella nuova tendenza dipendeva dallo stilista, perché allora non si parlava ancora di ritorno al passato né di mode. La moda la si creava. Quel passaggio da canoni tondi a tesi ne è l’esempio.

Oggi, invece e purtroppo, “si sa” solo guardare indietro per incapacità a creare Novità. O perché non viene richiesta, preferendo “rassicuranti” copie di perlopiù “sicuri” miti: per me oltraggi spacciati per omaggi. Fortunatamente non così in quel periodo, davvero d’oro, della Carrozzeria italiana, in cui di Fulvia sportive tipo la Competizione di Ghia se ne sono viste di molto diverse a parità di telaio. L’obiettivo primario era infatti la Personalità dello stile: specchio di quella dello stilista e dell’azienda per cui disegnava. Una propria forte personalità, capace di farsi riconoscere a distanza… senza neanche adocchiare lo stemma della Casa!

Ciò premesso, passo allo stile della Competizione, che, importante, ambiva essere prodotta. Dunque non una dream-car, allora ancora in voga ai Saloni, ma una seria speranza basata sulla Fulvia Coupé accreditata a Piero Castagnero… per alcuni ispiratosi ad alcune creazioni di Giovanni Michelotti (per cui si narra che i loro rapporti interpersonali si raffreddarono).

Sarà, ma, senza assolutamente nulla togliere al grande Michelotti né incensare Castagnero oltre il meritato, io ci vedo più un’ispirazione ai volumi che ai dettagli. Intendo quelli che fanno la vera differenza. Uno in particolare: la sfaccettatura (o smusso, o diedro) apprezzabile più sul frontale che sulle fiancate della Fulvia Coupé; inesistente sulle additate Michelotti quanto fondamentale per immediatamente distinguere la Fulvia Coupé dalle simili per volumetria. La personalista stilistica della Fulvia Coupé di Castagnero sta infatti tutta in quella sfaccettatura (che chiamo “segno” o “icon design”). Non solo la identifica a prima vista, ma alleggerisce otticamente tutta la carrozzeria da paragonarla alla leggerezza di un ballerina sulle punte: soprattutto vista di fronte. La riprova? Il confronto con la Fulvia Zagato: assai diversa, sebbene anch’essa “tagliata” perimetralmente da un diedro. Ma a metà fiancata anziché a 2/3 in alto: differenza che porta in particolare ad un frontale più massiccio.

Per la cronaca, una simil-sfaccettatura riapparirà sulla fiancata della Jaguar XJS di metà anni ‘70: una “brutta” molto fascinosa, che mi ha sempre intrigato proprio per la ricercata, quasi barocca personalità, accostabile a quella di alcune Lancia.

La disamina sopra non è accademica, bensì propedeutica o quantomeno connessa alla Fulvia Competizione di Tjaarda, che (come si evince anche dall’incipit del suo articolo) ben conosceva e praticava il senso delle proporzioni e i dettagli per adeguarlo all’obiettivo prefissato (…quello che oggi più nessuno sembra porsi). E proprio la leggerezza è riscontrabile in pressoché tutte le creazioni di Tom, di cui la più nota e celebrata è la De Tomaso Pantera.

Restando alla Fulvia per Ghia, anch’essa è parimenti leggera come la Coupé di Castagnero, ma tramite soluzioni estetiche totalmente diverse; nonostante mirata alle competizioni.

Penso di non sbagliare nel supporre che Tom non riuscisse a disegnare auto “pesanti”: sia per indole che per la Scuola Pininfarina. In questo eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.

Ancora sulla ricerca della leggerezza, l’ampia fascia nera della parte inferiore della carrozzeria è ed era una malizia allora in voga per appunto alleggerire otticamente la massa della carrozzeria. Se fosse stata tutta gialla l’impressione sarebbe stata ben diversa. Comunque sempre elegante.

Vengo ora a dettagli apparentemente infinitesimali quanto invece funzionali alla personalità distintiva della Fulvia Competizione; ma credo volutamente affini alla Coupé Lancia.

Mi riferisco in particolare ai piccoli fanali anteriori (posizione e direzione) e ai sottili posteriori: tutto fuorché banali geometrie quali potevano essere se prive di quei “picchi” o “crestine” da barocco spigoloso che li caratterizzano. Nel contempo, però, richiamano l’impaginazione (non la forma) di quelli “strani” nella coda tronca, a sua volta caratterizzata dalle “crestine” alle estremità superiori della Coupé di serie, sottolineate dal profilo cromato perimetrale.

Dunque Tjaarda nella Competizione ha condensato due stilemi posteriori della Lancia Coupé in uno. Non ha banalmente riproposto o rivisitato solo il fanale “strano” o solo le “crestine” (come molti oggi farebbero per “omaggiare”), ma si è “limitato” allo spirito sfruttando e fondendo le due tipicità formali: un velato omaggio… da svelare.

Se questa mia lettura non fosse chiara, la riduco a: forse - anche - Tom riteneva che fanalerie “stravaganti” sono state e dovrebbero essere un vezzo stilistico Lancia assunto a stilema (l’- anche - perché ne ho tenuto conto nella “mia” Ypsilon del ’95).

La calandra della Competizione non è invece tipizzata Lancia. In questo è perfettamente in linea con tutti i prototipi e show-cars di quegli anni. O anche di serie: su tutte la Lancia Stratos. Infatti gli stilisti non ancora pomposamente chiamati designer (sebbene più di quelli che da tempo così si fanno e lasciano appellare) miravano in primis a disegnare nuove forme; talvolta sfociate in nuove architetture (da cui il meritato titolo designer = progettista). Solo dopo si pensava alla cosmetica per connotarle con il feeling di marca, se richiesto. Bastava lo stemma per accasarle e il look per memorizzarle. L’opposto di oggi.

Dunque anche la Fulvia Competizione Ghia si sa che è una Lancia, ma non si vede. Però si vede che è un’auto sufficientemente distintiva nel panorama di allora che - ribadisco - andava stabilendo nuovi canoni estetici: le citate superfici tese e spigolose.

A proposito di superfici tese, quella di coda mimetizza lo spoiler, fuoriuscente all’occorrenza. Non quindi un’appendice aerodinamica sempre in vista… per far scena, come purtroppo molti spoiler posticci su auto nate senza. Ricordo che i test aerodinamici allora erano empirici: in corsa su strada, con svolazzanti fili di lana. La Galleria del vento Pininfarina era di là da venire. Fatto sta che sulla Competizione anche lo spoiler posteriore “c’è ma non si vede”. C’è, forse più per giustificare il nome che davvero utile aerodinamicamente. Non si vede, ritengo volutamente per non disturbare l’eleganza/leggerezza dello stile tipico di Tom Tjaarda.

Non vedo altro da segnalare all’esterno; mentre all’interno nulla di particolarmente distintivo. Non è una critica. Allora gli interni erano forzatamente minimalisti sia per l’uso di componenti standard che di proposito. Dunque ben lontani dallo scenografico (per non dire scemografico) over design odierno. Bastano quindi le parole di Tjaarda nell’articolo di “Style Auto”, in cui ricorda lo spirito sportivo dell’interno, cioè la ricerca della leggerezza soprattutto fisica come il roll-bar e altri elementi forati in stile aeronautico.

Invece, a riprova che la Creatività di allora merita la C di Capace di spaziare tra volumetrie e stili assai diversi tra loro a parità di telaio, quale altra Fulvia sportiva, più o meno coeva della Competizione, segnalo la Dunja del ’71 di Aldo Sessano (poi mio socio in Master Design Intl.) costruita da Coggiola: totalmente diversa dalla Competizione e dalla Coupé di base.

Diversità è sinonimo di personalità… diverse. Identico mio obiettivo quando, vent’anni dopo, mi venne affidato il neo Centro Stile Lancia, tendando di smuovere l’AD di Fiat Auto dell’epoca ad almeno offrire una sportiva Lancia DOC. Anzi DOCG. Per cui nel ’92 raffigurai tre Coupé nello spirito Fulvia Coupé, Fulvia Sport Zagato e Beta HPE, esplicitate in una tavola che le richiama senza replicare nulla di quelle. Cioè spirito e non fattezze: l’opposto della ri-Fulvia Coupé del 2003, che, proprio per il non dire nulla di veramente nuovo, ma ambire a “migliorare” il déjà vu, la ritengo sopravvalutata dai molti nostalgici che invece la bramano come un’occasione perduta. Per me perduta occasione di disegnare uno stile innovativo parimenti - per spirito! - all’originale. Ma bisogna volerlo e soprattutto esserne capaci.

Personalmente preferisco l’avanguardia alla retroguardia: alias la lungimiranza alla (comoda e facile) nostalgia. Peccato non poterlo chiedere a Castagnero, Michelotti, Tjaarda.

In altri termini, il passato dovrebbe insegnare ad andare nel futuro. Non usarlo come nostalgico paravento per carenza di nuove idee. Perché di quello si tratta se oggi tutto è impersonale o retrogrado. Oggettivamente (per quanto mi è possibile) quel mio tris  mantiene solo lo spirito delle ispiratrici. In primis la leggerezza ottica. Nulla di replicato. Semmai dettagli reinterpretati o, meglio, inediti quanto inseribili nella Tradizione Lancia al motto: “Ricreare. Non riciclare”. Oso pensare che Tom sarebbe d’accordo. E da qui lo saluto con eterna stima,

 

Enrico Fumia

 

 

PS - scrivendo mi è venuto in mente che nel ’67, vale a dire due anni prima della Competizione, ancora dilettante disegnai una delle pochissime idee dedicate a un Marchio (anziché “no logo” mirate in primis alla ricerca di nuove forme). Guarda caso una Fulvia sportiva ipotizzata sulla HF che brillava nei rallies. Una proposta amatoriale, nettamente diversa dalla Coupé.
Vista oggi, anch’essa anticipa le superfici anni ’70, ma, specie nella parte posteriore non è assimilabile alle poi conosciute Competizione e Dunja, né alla HF di serie. L’obiettivo era un’auto più connotata-rally della “timida” HF. Vale a dire integrante elementi funzionali allo sterrato o ghiacciato, da cui il nome Glass, senza per questo sembrare un carrarmato.
La cito perché rappresenta(va) l’omaggiare senza spudoratamente avvalersi dell’omaggiato. Stessa mira quando tentai, sempre nel ’92 come il tris Coupé, di convincere Paolo Cantarella a omaggiare i clamorosi trionfi Lancia nei rallies con una one-off battezzata Lanc…issima, basata sulla Delta Integrale. Purtroppo… no comment. O meglio vedasi “AUTOritratto”.